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Responsabilità 231 e confisca del profitto dell’ente per truffa aggravata

Responsabilità 231 e confisca del profitto dell’ente per truffa aggravata
231 / Aziende

Responsabilità 231 e confisca del profitto dell’ente per truffa aggravata

Corte di Cassazione – II Sez. Penale – n. 37326/2023 (udienza 05/07/2023).

La Suprema Corte ha espresso un interessante principio interpretativo in merito alla corretta individuazione del profitto ai fini della confisca all’ente, ai sensi dell’art. 19 del D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, accogliendo il ricorso del difensore della persona giuridica condannata per il reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche commesso da un suo apicale nell’ambito di un contratto di smaltimento di materiale ferroviario.

In particolare, la Cassazione ha negato la possibilità che il giudice determini in via equitativa la misura del profitto realizzato dall’ente e confiscabile.

1.    Il caso.

La Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della sentenza di prime cure, condannava sia l’imputato persona fisica sia la persona giuridica (di cui la persona fisica era procuratore speciale ed amministratore di fatto). In tale sede, il Tribunale aveva già dichiarato estinti per prescrizione tutti i reati contestati agli imputati, assolveva la persona fisica, e, limitatamente al reato di truffa avente ad oggetto lo smaltimento del pietrisco, con la formula dell’insussistenza del fatto, confermando il giudizio sulla responsabilità della persona giuridica relativamente all’illecito amministrativo dipendente dalla truffa contestata, riducendo la misura della confisca disposta nei confronti della persona giuridica.

Avverso tale sentenza, proponeva ricorso la difesa della persona giuridica deducendo sia la violazione di legge in relazione all’art. 24 D. Lgs. 231/2001 e 640 bis cod. pen. con riguardo ai capi e ai punti della sentenza impugnata in cui si è affermata la responsabilità della persona giuridica, in difetto degli elementi necessari per ravvisare il reato presupposto contestato, sia l’illegittimità della confisca in danno della persona giuridica, anche per la totale carenza di motivazione circa la quantificazione dell’ammontare del profitto, non potendosi ammettere alcuna determinazione equitativa della misura del profitto confiscabile nei confronti della persona giuridica.

2.    Il ragionamento della Cassazione.

In tale sede si intende approfondire l’accoglimento da parte della S.C. del ricorso difensivo relativo, appunto, alla legittimità della confisca e della connessa misura del profitto.

In particolare, la Corte afferma che è manifestamente illogica la motivazione adottata dalla sentenza impugnata per individuare la misura del profitto realizzato dall’ente, ricorrendo ad una determinazione equitativa che non è prevista né consentita dalla disposizione dell’art. 19 D. Lgs. 231/2001.

L’orientamento della giurisprudenza, riportato anche in sentenza prevede che la determinazione della misura del profitto, oggetto della confisca di cui all’art. 19, D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, va operata individuando “il vantaggio economico derivante in via diretta e immediata dalla commissione dell’illecito” (Sez. Unite, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436 – 01).

Nel caso in cui il profitto confiscabile derivi dall’esecuzione viziata di un contratto o altro rapporto sinallagmatico, dovrà tenersi conto, escludendola, dell’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone (Sez. Unite, n. 26654 del 27/03/2008, Fisia impianti, Rv. 239924 – 01; Sez. 2, n. 20506 del 16/04/2009, Società Impregilo, Rv. 243198 – 0; Sez. 6, n. 23013 del 22/04/2016, Gigli, Rv. 267065 – 01); il profitto può essere determinato anche sulla base di dati notori precisi, desunti da analisi statistiche e corroborati da specifiche norme di riferimento (Sez. 2, n. 50710 del 06/11/2019, Bottoli, Rv. 278009 – 01, riguardante una fattispecie in tema di corruzione nel settore dei lavori pubblici, in cui la Corte ha ritenuto corretta la quantificazione del profitto nell’importo del 10% dell’appalto, trattandosi dell’utile medio ricavato dalle imprese operanti nel settore, confermato dall’art.122 del d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, all’epoca vigente, che individuava la medesima percentuale da riconoscere alle imprese in caso di recesso da parte della stazione appaltante).

In particolare, osserva la Corte, come “la complessità del rapporto contrattuale da cui è scaturita la realizzazione del profitto per l’ente non esime il giudice dal procedere, anche attraverso il ricorso allo strumento della perizia contabile in materia contrattuale, all’individuazione delle somme percepite dall’ente quale effetto della condotta di reato posta in essere dal soggetto apicale, al netto delle variazioni contrattuali, di eventuali somme restituite e delle somme corrisposte per prestazioni effettivamente erogate.

3.    Considerazioni conclusive.

In definitiva, il Collegio ha accolto il ricorso difensivo anche con riferimento a tale motivo, sul presupposto che, certamente, non è consentito “individuare la misura del profitto realizzato dall’ente, ricorrendo ad una determinazione equitativa che non è prevista né consentita dalla disposizione dell’art. 19 D.Lgs. 231/2001”.

L’orientamento consolidato e ritenuto corretto della giurisprudenza, invece, afferma che la determinazione della misura del profitto, oggetto della confisca di cui all’art. 19, D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, va operata individuando “il vantaggio economico derivante in via diretta e immediata dalla commissione dell’illecito” (Sez. Unite, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436 – 01), e che, nel caso in cui, il profitto confiscabile derivi dall’esecuzione viziata di un contratto o altro rapporto sinallagmatico, dovrà tenersi conto, escludendola, dell’utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell’esecuzione da parte dell’ente delle prestazioni che il contratto gli impone.

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