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La messa alla prova non si applica agli enti.

La messa alla prova non si applica agli enti.
231 / Aziende / Business

La messa alla prova non si applica agli enti.

Le Sezioni Unite si pronunciano definitivamente sull’incompatibilità dell’istituto nel sistema della responsabilità degli enti ex D. Lgs. 231/2001.

Commento a Cassazione Penale, Sezioni Unite, 6 aprile 2023 (ud. 27 ottobre 2022), n. 14840

La pronuncia in commento rappresenta il punto di arrivo di un lungo percorso che ha visto più volte la Giurisprudenza di merito e di legittimità pronunciarsi su una questione di grande rilievo in materia di responsabilità degli enti, in particolare afferente all’applicabilità o meno dell’istituto della messa alla prova nei confronti dell’ente sottoposto a procedimento per aver posto in essere condotte integranti uno dei reati presupposto della responsabilità amministrativa da reato.

L’occasione che ha permesso alle Sezioni Unite di pronunciarsi con la sentenza n. 14840/2023 sul tema in esame ha preso le mosse da un contrasto nella giurisprudenza di legittimità circa la legittimazione del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello ad impugnare i provvedimenti riguardanti la messa alla prova e/o la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell’art. 464 septies c.p.p.

1. Il caso.

La vicenda trae origine dalla sentenza del 18 dicembre 2019 con la quale il Tribunale di Trento ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di una società ai sensi dell’art. 464-septies cod. proc. pen., per essere estinto l’illecito di cui all’art. 25-septies, comma 3, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ascritto alla società in relazione al delitto di lesioni colpose gravi contestato al legale rappresentante, per esito positivo della prova, ai sensi dell’art. 168-ter cod. pen.

Avverso la suddetta sentenza è stato proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Trento ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, con i quali, sulla premessa che le ordinanze del 12 marzo 2018 e del 12 aprile 2019 di ammissione alla prova della società non sono state comunicate al suo ufficio, ha concluso per l’annullamento della sentenza impugnata e delle prodromiche ordinanze di messa alla prova.
In particolare, il ricorrente ha dedotto, con il primo e secondo motivo di ricorso, il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., per violazione e falsa interpretazione dell’art. 168-bis cod. pen. e degli artt. 62 e ss. d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, rinvenibile nella sentenza impugnata e nelle ordinanze di messa alla prova, non essendo applicabile agli enti l’istituto della messa alla prova

2. Le argomentazioni della Corte di Cassazione sull’ammissibilità dell’istituto della messa alla prova.

La questione approdava così alle Sezioni Unite cui i giudici di legittimità chiedevano:

  1. «Se il procuratore generale sia legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, l’ordinanza che ammette l’imputato alla prova (art.464-bis cod. proc. pen.) e in caso affermativo per quali motivi»;
  2. «Se il procuratore generale sia legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell’art. 464-septies cod. proc. pen.».

Con riferimento al primo quesito la Suprema Corte forniva, con l’informazione provvisoria diffusa il 27 ottobre 2022, soluzione risposta affermativa ritenendo che «Il procuratore generale è legittimato, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, c.p.p., ad impugnare l’ordinanza di ammissione alla prova (art. 464-bis, c.p.p.) ritualmente comunicatagli ai sensi dell’art. 128 c.p.p. In conformità a quanto previsto dall’art. 586 c.p.p., in caso di omessa comunicazione dell’ordinanza è legittimato ad impugnare quest’ultima insieme con la sentenza al fine di dedurre anche motivi attinenti ai presupposti di ammissione alla prova. L’istituto dell’ammissione alla prova (art. 168-bis c.p.) non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al d. lgs. n. 231 del 2001».

* * *

Il secondo profilo, invece, è stato oggetto della sentenza in commento.

Con riferimento alla possibilità per l’ente di essere ammesso alla prova, ai sensi dell’art. 168-bis cod. pen., nell’ambito del processo instaurato a suo carico per l’accertamento della responsabilità amministrativa dipendente da reato ex D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, la Cassazione espone i vari orientamenti.

La prima considerazione condotta al riguardo dalla Sezioni Unite è che le norme relative alla messa alla prova non contengono alcun riferimento agli “enti” quali possibili soggetti destinatari di esse.

Né, d’altronde, le norme del D. Lgs. 231 del 2001, sebbene introdotte antecedentemente a quelle disciplinanti l’istituto della messa alla prova per gli imputati maggiorenni, contengono alcun richiamo che possa giustificare l’immediata applicabilità dell’istituto all’area della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.

Proseguono le Sezioni Unite, riflettendo sulla circostanza per cui gli artt. 34 e 35 del D.Lgs. 231/2001 che dettano le disposizioni processuali nell’ambito del sistema 231, oltre a prevedere l’osservanza delle norme specificamente dettate dal decreto, contengono un richiamo esclusivamente alle disposizioni del codice di procedura penale e alle disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili.

Pertanto, rammenta la Corte, l’applicazione “estensiva” ovvero “analogica” dell’istituto della messa alla prova agli enti “ha fatto registrare nella giurisprudenza di merito decisioni contrastanti, contrapponendosi ad un gruppo di ordinanze negative all’ammissione dell’ente alla prova (cfr. ad es. Trib. Milano, 27/3/2017; Trib. Bologna, 10/12/2020; Trib. Spoleto, 21/4/2021), altre pronunce, invece, favorevoli (Trib. Modena, 19/10/2020; Trib. Bari, 22/6/2022), tra cui quella oggetto di impugnazione”.

2.1 Le ragioni ostative all’applicazione estensiva dell’istituto

Nella pronuncia in commento viene richiamato l’orientamento che nega l’applicabilità della messa alla prova agli enti.

Questo, in particolare, afferma come la sospensione del procedimento con messa alla prova manifesti il proprio carattere afflittivo – proprio delle sanzioni penali – attraverso lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, il quale, appunto, rientra a pieno titolo nella categoria delle sanzioni penali.

Con riferimento, invece agli enti, in assenza allo stato di una normativa di raccordo che renda applicabile la disciplina di cui all’art. 168-bis cod. pen. alla categoria degli enti, deriva che l’istituto in esame, in coerenza con il principio della riserva di legge, non risulta affatto applicabile ai casi non espressamente previsti e, quindi, alle società in relazione alla responsabilità amministrativa ex D.Lgs. 231/2001 (Trib. Milano, 27/3/2017).

In aggiunta, la Corte riporta come “l’applicazione analogica non sarebbe praticabile, poiché la lacuna normativa conseguente al mancato coordinamento della disciplina sostanziale della messa alla prova con il d.lgs. n. 231 del 2001 appare essere in realtà intenzionale, rispecchiando la precisa scelta del legislatore di escludere l’ente dall’ambito soggettivo di applicazione dell’istituto.

In aggiunta, vi sarebbe incompatibilità strutturale tra la disciplina della messa alla prova e quella della responsabilità amministrativa degli enti, connotate da ratio diverse, inconciliabili negli aspetti sostanziali ed anche processuali.

Prosegue la Corte, come “l’articolo 168-bis cod. pen. modellato sulla figura dell’imputato persona fisica, in un’ottica, non soltanto special-preventiva, riparativa e conciliativa, ma soprattutto rieducativa, non è applicabile all’ente, con la conseguenza che deve ritenersi indebita l’estensione della sospensione del procedimento con messa alla prova all’ente, in quanto si rischierebbe di introdurre, per via giurisprudenziale, un nuovo istituto del quale lo stesso giudice sarebbe chiamato a declinare i presupposti sostanziali e processuali (Trib. Bologna, 10/12/2020)”.

Infine, sempre a sostegno della tesi negativa, è stato evidenziato che, pur volendo ritenere che l’ammissione alla prova dell’ente si risolva in un’interpretazione analogica in bonam partem, astrattamente consentita, “tale estensione sarebbe, comunque, inibita dal fatto che il percorso esegetico astrattamente concepito lascerebbe in concreto ampi margini di incertezza operativa, non essendo precisato quale sia l’ambito di applicazione della messa alla prova per gli enti e non essendo chiari i requisiti oggettivi di ammissibilità, a differenza di quanto, invece, previsto per gli imputati persone fisiche, con riferimento ai quali l’art. 168-bis cod. pen. richiede che non ne abbiano già usufruito in precedenza e che si proceda per reati puniti con pena pecuniaria, ovvero detentiva non superiore nel massimo a quattro anni di reclusione (Trib. Spoleto, 21/4/2021)”.

2.2 L’orientamento di merito favorevole all’applicazione della messa alla prova all’ente.

Il diverso orientamento di merito, favorevole invece all’ammissione alla prova dell’ente, propone un’interpretazione “estensiva”, ovvero “analogica“, dell’art. 168-bis cod. pen. Giungendo così a sostenere la piena compatibilità dell’istituto della messa alla prova con il sistema delineato dal D.Lgs. n. 231 del 2001.

Come sottolineato dalla stessa Suprema Corte, l’ammissibilità dell’ente alla sospensione del procedimento con messa alla prova è “subordinata al possesso di un imprescindibile prerequisito da parte della società, ovvero l’essersi la stessa dotata, prima del fatto di un modello organizzativo valutato inidoneo dal giudice, poiché solo in questo caso sarebbe possibile formulare un giudizio positivo in ordine alla futura rieducazione dell’ente, che dimostrerebbe così di essere stato diligente e di aver adottato un modello ritagliato sulle proprie esigenze specifiche per quanto valutato non idoneo dal giudice (Trib. Modena, 19/10/2020)”.

Con altra ordinanza (Trib. Bari, 22/6/2022), l’ammissione alla prova dell’ente è stata giustificata in base al presupposto che “l’applicazione della disciplina della messa alla prova dell’ente non determina una violazione dei principi di tassatività e di riserva della legge penale, generando effetti favorevoli per l’ente”.

Ciò che in ogni caso, accomuna tali interpretazioni sono le seguenti considerazioni:

  • Il difetto di coordinamento tra la disciplina sostanziale della messa alla prova e quella di cui al D.Lgs. 231/2001 non sarebbe espressione della scelta del legislatore di escludere gli enti dall’ambito soggettivo di applicazione dell’istituto in questione;
  • Il sistema della responsabilità amministrativa degli enti risponderebbe ad una logica di prevenzione dei reati etale finalità è compatibile con lo strumento della rieducazione dell’ente, ossia la prevenzione speciale in chiave rieducativa;
  • L’autonomia della responsabilità dell’ente, quale principio espresso dall’art. 8 del D.Lgs. 231/2001, non è argomento ostativo rispetto all’applicabilità della messa alla prova dell’ente, poiché non impedirebbe di per sé all’ente di accedere al procedimento speciale della messa alla prova, atteso che l’esito positivo di quest’ultima estinguerebbe l’illecito amministrativo;
  • Infine, l’incertezza applicativa della messa alla prova non sarebbe un valido motivo per non renderla applicabile anche agli enti, traducendosi nella fisiologica sfera di discrezionalità, nell’ambito della quale si muove il giudice in sede di applicazione analogica della legge e che la Costituzione limita quando possano derivare effetti negativi, non sussistenti in tale ipotesi.

2.3 La tesi delle Sezioni Unite: 1) la natura di trattamento sanzionatorio della messa alla prova.

La pronuncia in esame delle Sezioni Unite ha ritenuto di aderire all’interpretazione secondo cui l’istituto della messa alla prova, di cui all’art. 168-bis cod. pen., non può essere applicato agli enti in relazione alla ex D.Lgs. n. 231 del 2001, con la conseguenza che il ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Trento nei confronti delle ordinanze di ammissione alla prova della società e della sentenza di estinzione del reato ex art. 464-septies cod. proc. pen. è fondato.

In particolare, i Giudici di legittimità, prima di dar conto delle ragioni in favore di tale opzione interpretativa prescelta espongono brevemente i punti di approdo della giurisprudenza di legittimità e costituzionale con riferimento alle due discipline da porre a confronto, quella cioè del D.Lgs. n. 23/2001 e quella della messa alla prova ex art. 168-bis cod. pen.

Ciò al fine di verificarne la compatibilità e, dunque, di accertare la possibilità di applicare il procedimento di messa alla prova all’ente. 

Nelle proprie argomentazioni al riguardo la Cassazione prende le mosse dalla natura della responsabilità amministrativa degli enti, richiamando sul punto l’orientamento ormai consolidato di legittimità secondo il quale tale responsabilità è riconducibile ad un tertium genus, come anche sancito dalla sentenza delle Sezioni Unite del c.d. caso Thyssen, n. 38343 del 24 aprile 2011, Espenhahn, Rv.261112.

Qui, invero, si afferma che “il sistema normativo introdotto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, costituisce un corpus normativo di peculiare impronta, un tertium genus, appunto, cogliendo nel segno le considerazioni della Relazione che accompagna la normativa della responsabilità amministrativa degli enti quando descrivono un sistema che coniuga i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo”.

Allo stesso modo – ha ancora evidenziato la pronuncia citata – “non è dubbio che il complesso normativo in esame sia parte del più ampio e variegato sistema punitivo e che abbia evidenti ragioni di contiguità con l’ordinamento penale a causa della connessione con la commissione di un reato (che ne costituisce il primo presupposto), della severità dell’apparato sanzionatorio, delle modalità processuali del suo accertamento”.

Ciò posto, prosegue Corte, se la responsabilità amministrativa dell’ente deve ritenersi concettualmente inquadrabile in un tertium genus, alla stregua dei principi condivisibilmente sanciti dalla sentenza Espenhahn, “la messa alla prova ex art. 168-bis cod. pen. deve, invece, inquadrarsi nell’ambito di un trattamento sanzionatorio penale”.

Invero, l’istituto della messa alla prova dei maggiorenni, ispirato all’analogo istituto previsto per i minori ex artt. 28 e 29 del d.P.R. n. 448 del 22 settembre 1998, introdotto dalla legge 28 aprile 2014 n. 67, “è volto alla risocializzazione del reo, assicurando in relazione alla finalità specialpreventiva un percorso che tiene conto della natura del reato, della personalità del soggetto e delle prescrizioni imposte, così da consentire la formulazione di un favorevole giudizio prognostico”.

Esso si inserisce in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice – nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria, o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti di cui all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen. – decide con ordinanza (ai sensi dell’art. 464-quater cod. proc. pen.) sulla richiesta dell’imputato (formulata secondo le forme e modalità di cui all’art. 464-bis cod. proc. pen.) di sospensione del procedimento con messa alla prova, quando, in base ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen., reputi idoneo il programma di trattamento e ritenga che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati.

Il procedimento di ammissione alla prova, come noto, comporta la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato.

Comporta altresì l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.

La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità.

L’esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede, ai sensi dell’art. 168-ter comma 2 cod. pen. e 464-septies cod. proc. pen.

In definitiva, il procedimento in questione dà luogo ad una fase incidentale in cui si svolge un vero e proprio “esperimento trattamentale“, sulla base di una prognosi di astensione dell’imputato dalla commissione di futuri reati, che, in caso di esito positivo, determina l’estinzione del reato (Sez. U, n. 36272 del 31/03/2016, Sorcinelli, Rv. 267238).

La natura sostanziale, oltre che processuale, e “sanzionatoria” dell’istituto della messa alla prova è stata più volte affermata, sia dalla giurisprudenza costituzionale che da quella di legittimità.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 240 del 2015, ha avuto modo di precisare che il “nuovo istituto ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio

Con la sentenza n. 91 del 2018, la Corte costituzionale ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-quater e 464-quinquies cod. proc. pen., in riferimento all’art. 27, secondo comma, Cost., sollevate in quanto le disposizioni censurate «prevedono la irrogazione ed espiazione di sanzioni penali senza che risulti pronunciata né di regola pronunciabile alcuna condanna definitiva o non definitiva».

In proposito ha evidenziato che, se è vero che nel procedimento di messa alla prova manca una condanna, è anche vero che correlativamente non vi è un’attribuzione di colpevolezza: nei confronti dell’imputato e su sua richiesta, pur in difetto di un formale accertamento di responsabilità, viene disposto un trattamento alternativo alla pena che sarebbe stata applicata nel caso di un’eventuale condanna.

«La sospensione del procedimento con messa alla prova può essere assimilata all’applicazione della pena su richiesta delle parti (ex art. 444 cod. proc. pen.), perché entrambi i riti speciali si basano sulla volontà dell’imputato che, non contestando l’accusa, in un caso si sottopone al trattamento e nell’altro accetta la pena. Per queste caratteristiche anche il patteggiamento è stato sospettato di illegittimità costituzionale, sostenendosene il contrasto con la presunzione di non colpevolezza contenuta nell’art. 27, secondo comma, Cost., ma questa Corte con più decisioni ha ritenuto la questione priva di fondamento (Corte cost. sent. n. 91 del 2018)».

Il carattere innovativo della messa alla prova «segna un ribaltamento dei tradizionali sistemi di intervento sanzionatorio» e, proprio sulla base dei principi della sentenza Sorcinelli, Sez. U, n. 36272 del 2016, deve essere riconosciuta, soprattutto, “la natura sostanziale dell’istituto, poiché l’esito positivo della prova conduce ad una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato.

Il trattamento programmato – pur sanzionatorio – non è una pena eseguibile coattivamente, ma dà luogo a un’attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell’imputato, il quale liberamente può farla cessare con l’unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso”.

In questa struttura procedimentale tuttavia non manca, in via incidentale e allo stato degli atti (perché l’accertamento definitivo è rimesso all’eventuale prosieguo del giudizio, nel caso di esito negativo della prova), una considerazione della responsabilità dell’imputato.

La natura sanzionatoria della messa alla prova per gli adulti risulta poi, ancor più chiaramente, ribadita dalla successiva sentenza n. 68 del 2019.

In tale pronuncia, in particolare, è stato dato conto del fatto che con la sentenza n. 91 del 2018 è stata richiamata in senso adesivo la pronuncia delle Sezioni Unite, Sorcinelli, con la quale si è affermata la duplice natura -processuale e sostanziale – del nuovo istituto della messa alla prova per gli adulti, costituente un vero e proprio «trattamento sanzionatorio», ancorché anticipato rispetto all’ordinario accertamento della responsabilità dell`imputato e rimesso comunque – a differenza delle pene – alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte del soggetto; un trattamento che persegue lo scopo – costituzionalmente imposto in forza dell’art. 27, terzo comma, Cost. – della risocializzazione del soggetto, sulla base della libera scelta che questi ha compiuto per evitare le conseguenze, da lui ritenute evidentemente più pregiudizievoli, del processo ordinario e della pena che potrebbe conseguirne.

I riportati punti di approdo della giurisprudenza costituzionale e di legittimità sulle caratteristiche dell’istituto di cui all’art. 168-bis cod. pen. consentono di affermare la indubbia natura “sanzionatoria” della messa alla prova dei maggiorenni sulla base degli inequivoci indici rivelatori valorizzati nella sentenza n. 91 del 2018 dalla Corte costituzionale, tra cui:

  • L’obbligo a carico del soggetto che vi è sottoposto – ai sensi dell’art. 168-bis, comma 3, cod. pen. – di prestare lavoro di pubblica utilità, consistente in una «prestazione non retribuita […] di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività» e la cui «durata giornaliera non può superare le otto ore»;
  • La «prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno»;
  • Gli obblighi che derivano dalle prescrizioni concordate all’atto dell’ammissione al beneficio, che possono comprendere «attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali», prescrizioni, queste ultime, incidenti in maniera significativa sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto, sia pure in maniera meno gravosa rispetto a quanto accadrebbe nel caso di applicazione di una pena detentiva;
  • Il rapporto di proporzionalità delle prescrizioni cui il soggetto è vincolato rispetto alla gravità del fatto commesso, nonché la durata della messa alla prova, variabile a seconda della gravità del reato contestato all’imputato;
  • La valutazione dell’idoneità del programma di trattamento «in base ai parametri di cui all’articolo 133 del codice penale» e cioè in base ai criteri che sovraintendono ordinariamente alla commisurazione della pena;
  • La previsione di cui all’art. 657-bis cod. proc. pen., in caso di condanna conseguente al fallimento della messa alla prova, di scomputare dalla pena ancora da eseguire un periodo corrispondente a quello in cui il soggetto ha effettivamente eseguito le prescrizioni che gli erano state imposte «e ciò sulla base di un coefficiente stabilito dalla legge, che si fonda a sua volta su una valutazione di minore afflittività – ma pur sempre di afflittività – delle prescrizioni medesime rispetto a quella che deriva dalla pena detentiva».

2.4 La tesi delle Sezioni Unite: 2) la violazione del principio di riserva di legge penale.

Se, dunque, la responsabilità amministrativa da reato riguardante gli enti rientra in un genus diverso da quello penale (tertium genus) e la messa alla prova deve ricondursi ad un “trattamento sanzionatorio” penale, sulla base degli indici elencati, il Supremo Collegio conclude, in conformità alle conclusioni rassegnate dal procuratore generale in sede, che l’istituto della messa alla prova non può essere applicato agli enti, a ciò ostando, innanzitutto, il principio della riserva di legge di cui all’art. 25, secondo comma, della Costituzione.

Infatti, “l’introduzione attraverso provvedimenti giurisdizionali di un “trattamento sanzionatorio” ad una categoria di soggetti – gli enti – non espressamente contemplati dalla legge quali destinatari di esso, in relazione a categorie di illeciti non espressamente previsti dalla legge penale, si pone in contrasto con il principio di legalità della pena, del quale la riserva di legge costituisce corollario, che si traduce nel principio, secondo cui «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso»”.

Non possono soccorrere, al fine di ritenere applicabile agli enti l’istituto della messa alla prova, né l’analogia in bonam partem, né tantomeno l’interpretazione estensiva, come invece sostenuto nelle pronunce di merito favorevoli all’applicazione agli enti della messa alla prova.

Invero, le regole per l’applicazione analogica sono dettate dagli artt. 12 e 14 disp. prel. cod. civ., che definiscono il ragionamento per similitudine, ma, nel contempo, ne restringono l’ambito applicativo, disponendo il divieto di analogia in materia penalele leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati»).

In proposito, le Sezioni Unite hanno evidenziato che la sanzione da applicare ad una fattispecie che ne sia priva non può essere rinvenuta attraverso l’interpretazione analogica.

In caso contrario “l’interprete della legge si trasformerebbe in legislatore con una marcata incidenza negativa sia sul principio di certezza sia sulla stessa efficacia determinante delle disposizioni penali coinvolte in siffatta operazione interpretativa, diretta a correlare, con l’intervento del giudice, il comportamento del soggetto attivo del reato ad una pena non costituente oggetto di specifica comminatoria legislativa (Sez. U, n. 5655 del 26/05/1984, Sommella, Rv. 164857)”.

Il divieto di analogia per le norme penali in applicazione del principio di tassatività, ulteriore corollario del principio di legalità, si traduce per il giudice nell’impossibilità di applicare fattispecie e sanzioni, oltre i casi espressamente e specificamente contemplati dalla legge.

Tale divieto, a maggior ragione, deve trovare applicazione nella fattispecie in esame, in cui viene in questione la traslazione o meglio l’innesto del “trattamento sanzionatorio penale” della messa alla prova in un sistema – quello della responsabilità amministrativa degli enti derivante da reato – che non solo non è assimilabile ad un sistema penale – ma riguarda appunto gli enti, ossia soggetti giammai indicati quali destinatari di precetti penali, dichiaratamente esclusi dal novero di essi dalla già citata Relazione ministeriale di accompagnamento al d.lgs. n. 231 del 2001. Lo stesso d.lgs. n. 231 all’art. 2, richiama espressamente il principio di legalità, quale principio ineludibile affinché l’ente possa essere sanzionato, evidenziando che «l’ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto».

3. Considerazioni conclusive.

Al termine dell’articolata ricostruzione innanzi esposte dunque, le SS.UU. affermano, nella sentenza n. 14840/2023 qui in commento il seguente principio di diritto: “L’istituto dell’ammissione alla prova di cui all’art. 168-bis cod. pen., non trova applicazione con riferimento alla disciplina della responsabilità degli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001“.

Nella fattispecie in esame, pertanto, la fondatezza del ricorso del Procuratore generale ricorrente, quanto alla illegittima ammissione alla prova dell’ente e alla conseguente declaratoria di non doversi procedere nei confronti della società, ai sensi dell’art. 464-septies cod. proc. pen, per essere estinto, per esito positivo della prova, l’illecito di cui all’art. 25-septies, comma 3, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, comporta l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e delle ordinanze del Tribunale di Trento, con conseguente trasmissione degli atti al Tribunale di Trento per l’ulteriore corso.

Tale epilogo conduce ad alcune riflessioni:

  • Le argomentazioni del Supremo Consesso sono certamente condivisibili. Dirimente è stato il raccordo logico-interpretativo fra la qualificazione dell’istituto della messa alla prova quale c.d. trattamento sanzionatorio penale, di natura sostanziale (per quanto qui rileva), e l’impossibilità di procedere ad una interpretazione estensiva e/o analogica, per violazione del principio della riserva di legge penale ex art. 25 co. 2 Cost.;
  • Ciò, tuttavia, non significa che una riflessione in termini di politica del diritto non debba essere sul tema aperta. Invero, le finalità “specialpreventiva” e “risocializzante” dell’istituto non sarebbero di per sé affatto incompatibili con l’esigenza di consentire ad un ente di “redimersi, adottando un modello organizzativo ex D.Lgs. 231/2001 idoneo ed efficace, in modo da evitare sanzioni particolarmente afflittive (pecuniarie ed interdittive);
  • Vero è che attualmente l’istituto sarebbe di fatto inapplicabile stante l’assenza di soggetti, come i Servizi Sociali per le persone fisiche, ai quali affidare l’ente per il percorso di recupero;
  • La soluzione al problema potrebbe derivare da una specifica iniziativa legislativa che introduca una regolamentazione compiuta ed organica dell’istituto della messa alla prova adattandolo alla conformazione ed alle esigenze di soggetti diversi dalle persone umane.

Avv. Adamo Brunetti

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