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Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. La Cassazione interviene sul caporalato.

Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. La Cassazione interviene sul caporalato.
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Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. La Cassazione interviene sul caporalato.

1. IL CASO 

La Corte di Cassazione torna a parlare di caporalato.

E lo fa in una sentenza della IV Sezione, n. 46842 del 22 dicembre 2021 in cui analizza il tema dell’intermediazione illecita e dello sfruttamento del lavoro di cui all’art. 603-bis c.p. 

Il caso oggetto del giudizio aveva origine con il provvedimento emesso il 1/7/2020 dal Tribunale del Riesame di Cosenza in accoglimento dell’istanza di riesame presentata dal ricorrente, con cui veniva annullato il decreto di sequestro preventivo dell’azienda nella sua disponibilità emesso dal GIP di Castrovillari nel maggio del 2020.

All’indagato era contestato il reato di cui agli artt. 81 cpv, 110, 603-bis, co. 1 n. 2), 3 nn. 1), 2), 3) e 4), 4 nn. 1) e 3) perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso ed in tempi diversi, in concorso con il coimputato, utilizzava, assumeva ed impiegava presso la propria azienda agricola manodopera, sottoponendo i braccianti a condizioni di sfruttamento.

Il tutto, secondo gli addebiti ascritti agli indagati, avveniva approfittando da parte di costoro dello stato di bisogno dei lavoratori, i quali, invero, attese le precarie condizioni economiche ed avendo la necessità di provvedere ai loro bisogni, erano costretti ad accettare le suddette condizioni di lavoro.

L’attività di utilizzazione sarebbe stata svolta mediante l’intermediazione illecita di altri soggetti a capo di un’organizzazione dedita al caporalato, che fungevano da reclutatori della manodopera bracciantile.

Avverso la decisione ricorreva il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza lamentando la “non consentitascissione operata dal Tribunale del riesame tra la figura del reclutatore e quella dell’utilizzatore, oggi entrambi punibili ex art. 603-bis c.p.

Il ricorrente, in particolare, sottolineava come:

a) Anche il solo sfruttamento (e non solo l’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore) possa configurare l’ipotesi di “caporalato”;

b) Lo sfruttamento può essere integrato da una sola delle condizioni analiticamente indicate dalla norma dell’art. 603-bis co. 3 c.p. (retribuzione, orario di lavoro, sicurezza ecc.);

c) Può aversi sfruttamento anche in presenza di un solo lavoratore sottoposto alle condizioni degradanti di cui innanzi;

d) “Trattandosi di reato eventualmente abituale, per la sua esistenza non sarebbe necessaria la reiterazione di intermediazioni o utilizzazioni, potendo il reato perfezionarsi anche con una sola intermediazione od utilizzazione (relativa ad un solo lavoratore)”.      

I giudici della Cassazione, pur rigettando il ricorso, approfondiscono importanti profili inerenti la fattispecie di cui all’art. 603-bis c.p. la cui ricorrenza statistica e rilevanza mediatica sono sempre più accentuate negli ultimi tempi.  

2. IL DELITTO DI CAPORALATO IN CERCA DI IDENTITÀ. IL TRAVAGLIATO PERCORSO DI COSTRUZIONE DELL’ART. 603-BIS C.P.

Nel richiamare le ragioni sottese alla disciplina del “caporalato”, la pronuncia in commento sottolinea come il legislatore, mediante l’inserimento nel codice penale di tale delitto, abbia inteso colmare un vuoto di tutela che si era venuto a creare rispetto ai casi che si pongono nella zona grigia tra:

a) La più grave ipotesi di riduzione in schiavitù e la tratta degli esseri umani di cui all’art. 600 c.p., da una parte;

b) Gli illeciti contravvenzionali previsti dalla Legge Delega n. 30/2003 (la cd. “Legge Biagi”), poi attuata con il D.Lgs. 276/2003, in particolare quelli di esercizio di attività di intermediazione senza autorizzazione e di l’utilizzo di manodopera somministrata da chi non è autorizzato, dall’altra (art. 18).

In effetti, fino all’introduzione, con il D.L. n. 138/2011, dell’art. 603-bis c.p. tutte le ipotesi di sfruttamento dei lavoratori da parte di intermediari ed utilizzatori di manodopera non ricevevano nel nostro sistema un’adeguata considerazione sul piano penalistico, dunque una sufficiente risposta sanzionatoria rispetto al grave disvalore sociale che esse determinavano.

A ben vedere, anche l’iniziale risposta del legislatore fu piuttosto blanda e non del tutto esauriente rispetto ai bisogni di tutela emersi.

Basti pensare che lo stesso art. 603-bis c.p., nella sua originaria versione, nel punire chiunque conducesse “un’attività organizzata di intermediazione, reclutandone manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori“, prevedeva in sostanza che:

a) La condotta tipica rilevante per il delitto in oggetto fosse solo quella dell’intermediazione;

b) L’intermediazione stessa fosse connotata da un’attività organizzata del caporale con esclusione, quindi, di tutte quelle forme di caporalato “occasionale”;

c) La tipizzazione dello sfruttamento avvenisse solo ed esclusivamente nell’ambito dell’intermediazione;

d) Lo sfruttamento rilevante ai fini della fattispecie fosse solo quello attuato mediante forme coercitive della libertà del lavoratore (violenza, minaccia, intimidazione).

Una simile strutturazione della norma incriminatrice attirò subito le critiche della dottrina che, dal canto suo, sottolineava come:

a) La disposizione in commento avesse un raggio di operatività estremamente ridotto, non includente la condotta di sfruttamento caratteristica del datore di lavoro;

b) Per tale motivo, l’unica possibilità per chiamare a rispondere il datore di lavoro per il delitto di cui all’art. 603-bis c.p. fosse circoscritta all’ipotesi di un suo eventuale concorso nel reato commesso dall’intermediario;

c) Le modalità più diffuse e subdole di sfruttamento, attuate senza ricorrere necessariamente alla violenza, alla minaccia o all’intimidazione fossero escluse dall’area di punibilità tracciata dalla disposizione;

d) La mancata previsione del delitto di caporalato quale illecito presupposto della responsabilità amministrativa degli enti ex D.Lgs. 231/2001 finisse per indebolire ulteriormente l’efficacia concreta di una disposizione incriminatrice immaginata per il contrasto ad un fenomeno alimentato proprio nell’ambito di soggetti collettivi (che fungevano da intermediari o da utilizzatori della manodopera sfruttata).

3. LA RIFORMA DEL 2016 E L’ALLARGAMENTO DELLE MAGLIE DELLA TUTELA.

È evidente che così impostato l’art. 603-bisfiniva […] per assumere […] una funzione residuale e uno spazio di operatività molto ridotto”.

Si rendeva quindi indispensabile una riformulazione della norma che, attraverso “un alleggerimento sostanziale della tipicità”, ne estendesse l’ambito applicativo favorendone una più agevole praticabilità processuale, grazie anche a un più limitato onere probatorio”.

Ed è ciò che è avvenuto con la L. n.199 del 2016, che ha modificato la fattispecie in commento distinguendo tra:

a) L’ipotesi di intermediazione illecita, cioè il “caporalato” vero e proprio, configurato come delitto di pericolo a dolo specifico; e

b) Quella di sfruttamento del lavoro, condotta propria del datore di lavoro,

entrambe, peraltro, equiparate sotto il profilo sanzionatorio.

Quanto alla struttura della norma incriminatrice:

a) Le condotte tipiche che ne caratterizzano l’essenza oggettiva sono 

I. il reclutamento

II. l’utilizzo della manodopera, a loro volta articolabili – in via alternativa – nello 

i. sfruttamento o 

ii. approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore

indici già contemplati nella disposizione previgente;

b) Viceversa, 

l. la violenza e 

ll. la minaccia

che nella versione antecedente erano elementi costituitivi del reato, oggi ne rappresentano circostanze aggravanti.

La disposizione, poi, fornisce una serie di elementi sintomatici attraverso i quali è possibile desumere la prova dello sfruttamento, vale a dire:

a) La reiterata corresponsione ai lavoratori di retribuzioni difformi rispetto a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva, o comunque sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 

b) La ripetuta violazione della normativa su orario di lavoro, riposi, aspettative obbligatorie, ferie

c) L’accertata violazione delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 

d) La sottoposizione dei lavoratori a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti o disumane.

Trattasi di indici senza dubbio generici, tendenzialmente indeterminati, che se fossero elementi costitutivi del fatto tipico costituirebbero una palese violazione al principio di determinatezza della fattispecie penale declinazione di quello, più generale, di legalità.

In realtà essi assolvono (o dovrebbero assolvere) alla funzione di mero “orientamento probatorio” del giudice, in ottica di supporto nella relativa attività di ricostruzione della singola fattispecie concreta, dunque volutamente non “tassativi, né determinati proprio perché non concorrono a descrivere la tipicità” del fatto di reato (cfr. V. TORRE, L’obsolescenza dell’art. 603-bis c.p. e le nuove forme di sfruttamento lavorativo).

Insomma, come affermano i Giudici nella sentenza in commento, una sorta di “linee guida che, secondo le intenzioni del legislatore, possono aiutare l’interprete a meglio destreggiarsi in un ambito interpretativo così poco definito e a diradare la vaghezza del concetto di sfruttamento”.

3.1. L’Oggetto della tutela.

Quanto all’oggetto di tutela, sottolinea la Corte nella sentenza in commento che “l’art. 603-bis è collocato nell’ambito del Titolo XII, dedicato ai delitti contro la persona, e più specificamente nel Capo III, avente ad oggetto i delitti contro la libertà individuale”.

Ciò significa che oggetto di tutela da parte della fattispecie “non è un bene collettivo”, quanto, piuttosto, la dignità del singolo lavoratore, con la conseguenza che “se in linea generale non si può escludere che dal […] contesto organizzativo entro il quale si colloca la prestazione del singolo lavoratore possano trarsi elementi di prova dello sfruttamento proprio di quest’ultimo, tuttavia, è comunque necessario, ai fini dell’integrazione del reato, che venga accertata la peculiare condizione” di approfittamento riferita al singolo prestatore di lavoro.

Dunque, non può sussistere sfruttamento in presenza di “una mera sommatoria di condotte realizzatesi episodicamente in danno di lavoratori diversipoiché la reiterazione che caratterizza il delitto deve necessariamente focalizzarsi sul singolo soggetto passivo o su una pluralità di soggetti passivi

3.2 La responsabilità degli enti per il delitto di caporalato.

L’ulteriore elemento di novità apportato dalla riforma del 2016 è stata, infine, l’estensione della responsabilità amministrativa degli enti anche all’intermediazione illecita ed allo sfruttamento del lavoro, attuata mediante l’inserimento dell’art. 603-bis nel novero dei reati-presupposto del D.Lgs. n. 231/2001, in particolare nell’art. 25-quinquies.

La conseguenza è stata – oltre all’assoggettabilità dell’ente collettivo alla responsabilità per il reato commesso da un proprio apicale o sottoposto – anche quella di prevedere in simili ipotesi l’applicabilità di “strumenti repressivi di tipo patrimoniale come i diversi tipi di confisca e il sequestro giudiziario”.

Tanto, scrivono i Giudici, “a riprova di una raggiunta maggiore consapevolezza che siamo di fronte, a tutti gli effetti, a forme di criminalità economica”. 

In tal modo si è inteso fornire una risposta più incisiva (ed estesa) all’esigenza di rafforzamento della tutela rispetto ad un fenomeno, quello del “caporalato” e dello sfruttamento lavorativo in generale, insidioso e subdolo, spesso insinuato nelle logiche organizzative aziendali e nelle politiche delle risorse umane interne a realtà imprenditoriali più o meno complesse, nelle quali trova terreno fertile ed occasioni facili per proliferare indisturbato.

Da qui la necessità di perseguire, condivisibilmente, una strategia che non sia solo repressiva di tale fattispecie, ma anche preventiva ed adiuvante rispetto alla risposta sanzionatoria offerta dal codice penale, e che nel modello 231 e nel sistema di gestione dei rischi da esso proposto trova senz’altro un valido punto di riferimento per gli operatori.

Leggi qui la sentenza

Avv. Adamo Brunetti 

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